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Levice (Leis in piemontese) è un comune italiano di circa 220 abitanti.

Storia

Di origine molto antica era noto ai romani con il nome di Livicium o Levicium; lo ritroviamo poi designato come Levix o Levesj in alcune carte del 991.

Antico feudo che nel XII° secolo era in possesso dei Marchesi di Cortemilia, tenuto dai Signori di Prunetto, passò nel 1197 ad Ottone Del Carretto, marchese di Savona.
Questi lo cedette ai Del Carretto di Spigno che, a loro volta, lo cedettero ad un’altra branca della propria famiglia i Marchesi di Prunetto, il cui membro di maggior rilievo, Ludovico figlio di Manfredi, fece sottomettere Levice ai Duchi di Milano nel 1491.
Nel 1522 Raffaele, primogenito di Ludovico, ebbe l’investitura del territorio di Levice dal duca Francesco II° Sforza ai cui discenti, fino al XVII° secolo, i Del Carretto mantennero subordinata la propria Signoria.
Fu Anna Del Carretto ha portare in dote il feudo di Levice a Galeazzo Scarampi che lo tenne sino all’annessione al Regno di Sardegna del 1736. Nel 1796 con l’inizio della campagna Napoleonica in Italia, l’esercito francese, alla volta dell’alessandrino, giunse anche a Levice arrivando da Prunetto.

Curiosità

Il «Palazzotto» di Levice, conosciuto anche come Palazzo Marchesi Scarampi, è un’elegante struttura del ’700 fatta costruire dal conte Gian Galeazzo Scarampi nella piazza della chiesa. Nella prima metà degli anni 10 del nostro secolo sono iniziati gli interventi di recupero, grazie ai contributi della Fondazione Crc, e nell’aprile 2015 sono stati inaugurati i «Crutin», nel piano sotterraneo. Palazzo Marchesi Scarampi è anche la sede istituzionale dell’Ordine dei Cavalieri delle Langhe, che tramite le svariate iniziative culturali organizzate negli ultimi anni (incontri, mostre, gemellaggi con altre associazioni culturali) ha portato a Levice visitatori ed illustri personalità del Piemonte.

Poesia

(Levice – Canti delle Langhe – Don Carlo Prandi)

Nel cuneo di due borri confluenti
asserragliato stai, come a difesa;
ma sono al petto ostili fren mordenti
quei che ti furo un dì scherno a l’offesa.

Invido guardi i figli tuoi contenti,
sparsi sulle precipite distesa
ampia de’ campi liberi e fiorenti,
curvati al solco in fervida contesa.

E volgi a valle desioso il guardo,
dove, lunghesso il fiume, il fiotto umano,
più ratto scorre, e pulsa più gagliardo.

E in cor ripensi forse al tempo amaro,
in cui, ferocemente, fato insano
fra cupi borri t’obbligò al riparo.

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